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Clocking In with Haylee Gaffin - Podcast about Podcasting for Podcasters


1 164: Foundations of Podcast Growth: Grow Your Podcast Series Pt. 1 10:41
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Are you tired of releasing episodes week to week and getting no download growth? In this episode, I’m kicking off a brand-new series where I’ll be breaking down the exact strategies you need to expand your podcast audience—starting with the essential foundations. In this first episode, I’m covering: Why podcast growth matters (and why it’s NOT just about big numbers) The 3 core growth strategies: organic, collaborations, and paid growth What sustainable, realistic growth actually looks like Whether you’re just getting started or looking to scale, this series will give you the tools you need to grow your show strategically. Today's episode is brought to you by Mic Check Society , our community for podcasters who are looking to take their podcast from good to great. Come join us for educational trainings, a private member's only community, and monthly calls! Get $10 off per month with code PODCAST at micchecksociety.com . Clocking In with Haylee Gaffin is produced by Gaffin Creative , a podcast production company for creative entrepreneurs. Learn more about our services at Gaffincreative.com , plus you’ll also find resources, show notes, and more for the Clocking In Podcast. Time-stamps: Why podcast growth matters (2:09) Three pillars of podcast growth (3:39) Organic growth (3:52) Collaboration and borrowing audiences (4:31) Paid growth opportunities (5:11) What sustainable growth looks like (6:36) Connect with Haylee: instagram.com/hayleegaffin Gaffincreative.com micchecksociety.com Review the Transcript: https://share.descript.com/view/Plzue2YOIAh Hosted on Acast. See acast.com/privacy for more information.…
La Sveglia di Giulio Cavalli
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×C’è un punto oltre il quale le parole non sono più opinioni, ma prove. Il genocidio non si consuma soltanto con le bombe: si prepara nel linguaggio, si legittima nella propaganda, si giustifica con l’ideologia. È quello che sta accadendo a Gaza. Dove la devastazione non è solo materiale, ma discorsiva. E dove l’intento è dichiarato, pubblicamente, più volte, da più voci. Il 9 ottobre 2023 il ministro della Difesa Yoav Gallant annuncia un “assedio totale” e definisce i palestinesi “animali umani”. Il presidente Isaac Herzog nega l’esistenza di civili: “un’intera nazione è responsabile”. La deputata Gotliv invoca “missili senza limiti” per “radere al suolo Gaza senza pietà”. Il ministro Eliyahu considera “una delle opzioni” la bomba atomica. Il vicepresidente della Knesset, Nissim Vaturi, scrive: “Gaza deve essere bruciata, cancellata dalla faccia della Terra”. E ancora: Bezalel Smotrich parla di “due milioni di nazisti”, di “purificazione”, di “distruzione totale”. Netanyahu loda Smotrich e cita Amalek, il popolo biblico da sterminare. L’ex ministro Moshe Feiglin chiede che Gaza venga “distrutta come Dresda e Hiroshima”. Ariel Kallner e Yinon Magal evocano esplicitamente una “seconda Nakba”. Sono frasi, ma non solo. Sono ordini in potenza, cornici morali, autorizzazioni implicite all’eliminazione di un intero popolo. Perché le parole generano realtà. E la realtà oggi, a Gaza, è una striscia bombardata fino alle fondamenta, privata di acqua, luce, rifugi, umanità. Gaza è una scena del crimine. Gli intenti sono già tutti scritti. Ed è sotto gli occhi di tutti. La storia li leggerà. E li ricorderà. #… #LaSveglia per La Notizia Diventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support .…
Non è un effetto collaterale. È il bersaglio. Lo dice Ehab Abo Khair, portavoce dell’ultima università rimasta in piedi a Gaza, prima che fosse occupata per 70 giorni e poi rasa al suolo dall’esercito israeliano. È il 17 gennaio 2025. Due giorni prima del cessate il fuoco. La distruzione sistematica delle scuole e delle università palestinesi non è un eccesso: è una dottrina. Secondo le Nazioni Unite, l’80% delle scuole di Gaza è stato distrutto. Tutte le undici università non esistono più. Hanno bruciato anche i libri. E la replica israeliana? Qualche condanna di facciata, la solita inchiesta-fantasma. Kenneth Roth, ex direttore di Human Rights Watch, ha parlato di violazioni gravi del diritto internazionale umanitario. Perché anche se in quelle aule ci fossero state armi – ipotesi mai dimostrata – la distruzione metodica di interi campus non ha alcuna proporzionalità militare. È una punizione culturale. Lo chiamano “scolasticidio”, un termine coniato nel 2009 dalla docente Karma Nabulsi per descrivere la cancellazione intenzionale dei sistemi educativi. Myriam Benraad parla di “epistemicidio”: l’assassinio della conoscenza come atto di guerra. Non si colpiscono solo i muri. Si spezza la possibilità stessa di ricostruire, di ricordare, di esistere come popolo. Cinquemila studenti, novantacinque docenti universitari e duecentosessantuno insegnanti uccisi. Oltre seicentomila studenti senza scuola da oltre un anno e mezzo. Mentre le bombe cancellano le aule, Trump arresta studenti solidali nelle università americane e taglia fondi. La guerra alla Palestina passa per l’annientamento del pensiero. Serve chiamarlo con il suo nome. Serve farlo ora. #LaSveglia per La Notizia Diventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support .…
Bezalel Smotrich l’ha detto chiaramente: “una pita e un piatto di stufato, e questo è tutto”. È il limite razionato della pietà, la misura della vita concessa per continuare a distruggere. Dietro il linguaggio della sicurezza e della fermezza, si delinea una strategia che ha poco a che fare con Hamas e molto con la punizione collettiva. Il ministro delle Finanze israeliano ha definito “il minimo dei minimi” gli aiuti umanitari concessi alla popolazione di Gaza. Il fine non è sfamare, ma mantenere in piedi, con precisione millimetrica, un popolo sotto assedio. Per non far morire la narrazione della guerra “giusta”, serve che i gazawi restino abbastanza vivi da non scandalizzare l’Occidente. È la fame programmata come strumento di legittimazione internazionale. Netanyahu lo ha detto apertamente: “non dobbiamo arrivare alla fame”, non per umanità, ma per non perdere “l’ombrello diplomatico” che protegge Israele dalle sanzioni e dal Tribunale dell’Aja. Così l’assistenza diventa operazione cosmetica: il pane serve più a Gerusalemme che a Gaza. Intanto le immagini dei camion in fila mostrano un’illusione di aiuto, mentre le cucine pubbliche razionano zuppa e propaganda. Smotrich rivendica che “stiamo distruggendo tutto ciò che resta della Striscia di Gaza”. E lo fa con metodo, con parole studiate per diventare bandiera. Ogni briciola distribuita serve a prolungare l’assedio, non ad alleviarlo. La distruzione è fatta di calcoli, non di bombe. Non è una guerra contro Hamas, ma la normalizzazione della distruzione amministrata. Un popolo trattato come corpo da ridurre a caloria, da spostare, da logorare. Smotrich lo chiama “leadership”. La storia lo chiamerà assedio. #LaSveglia per La Notizia Diventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support .…
Donald Trump la chiama “una soluzione positiva per Gaza”. Israele la chiama “fase operativa”. Insieme costruiscono una nuova Nakba. Mentre i carri armati dell’operazione “Carri di Gedeone” avanzano nella Striscia, radendo al suolo ciò che resta di Rafah, il presidente Usa tornato alla Casa Bianca lavora a un piano di deportazione di massa: un milione di palestinesi da trasferire in Libia. Secondo la Nbc News, in cambio dell’accoglienza forzata, Trump sarebbe pronto a sbloccare miliardi di dollari dei fondi libici congelati da Washington. È un baratto tra esilio e denaro. Nessun governo libico ha confermato. Nessuna autorità palestinese è stata consultata. Nessun trattato internazionale lo giustifica. La terza fase della guerra israeliana – dopo lo sterminio e lo sfollamento – è già in corso: la distruzione sistematica delle città per impedire qualsiasi ritorno. Israele ha già cancellato oltre 60mila edifici. Gaza è ridotta al 31% del suo patrimonio abitativo. E Trump, intanto, promette “buone notizie per giugno”. Ma non basta. Per spostare un milione di persone servirebbero 1.173 voli su Airbus A380, o migliaia di viaggi via mare e terra. A Gaza non c’è un aeroporto. E l’Egitto, che dovrebbe concedere il transito, tace. Anche la Libia – divisa, instabile, ostile – respinge l’ipotesi. L’intero mondo arabo, al vertice di Baghdad, ha ribadito il rifiuto di qualsiasi piano di espulsione. Trump non cerca soluzioni, cerca territori da vendere. Gli sfollati non sono più civili: sono numeri da dislocare. E Gaza diventa uno spazio vuoto da riassegnare. Così, mentre Netanyahu devasta, Trump negozia. Con chi? Per cosa? Non importa. Importa solo che, anche stavolta, il mondo guardi altrove. In silenzio. #LaSveglia per La Notizia Diventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support .…

1 Non in mio nome: la rivolta silenziosa dei soldati israeliani 1:51
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C’è chi diserta, ma non fugge. Chi rifiuta l’uniforme, ma non tradisce il Paese. Chi dice “no” in nome di una coscienza che pesa più delle stellette. L’ultima ondata di mobilitazione in Israele — come racconta Ruth Margalit su The New Yorker — non ha trovato tutti allineati e coperti. Migliaia di riservisti hanno deciso di non rispondere alla chiamata. Non per codardia. Per lucidità. Sono soldati israeliani che avevano giurato fedeltà a uno Stato, non a un governo. Alcuni sono tornati precipitosamente dall’estero dopo l’attacco di Hamas dell’ottobre 2023. Hanno combattuto, pianto, obbedito. Ma oggi si tirano indietro. Non per stanchezza, ma per vergogna. Perché, come scrive il soldato Eran Tamir, “questa guerra è il nostro punto più basso”. Perché la liberazione degli ostaggi è l’ultimo obiettivo sulla lista del governo, preceduto dal “controllo operativo” di Gaza e dallo spostamento forzato della popolazione civile. Perché, semplicemente, non si fidano più. È la crisi morale prima ancora che politica di uno Stato fondato sulla memoria dell’esilio, che ora blocca gli aiuti e affama i civili. È l’erosione di una coesione nazionale che si regge sempre più solo sull’obbligo e sull’abitudine. La retorica bellica resta, ma la carne si sfila. Persino nell’esercito più coeso del Medio Oriente. Intere compagnie si sciolgono, i comandanti reclutano su Facebook, si promettono turni “settimana per settimana” pur di tappare i buchi. Si combatte senza motivazione, si muore per inerzia. E quando i soldati cominciano a dire “basta”, il problema non è solo militare. È il sintomo terminale di una guerra che ha perso anche il suo racconto. #LaSveglia per La Notizia Diventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support .…
Ora che anche il Financial Times parla di “vergogna”a Gaza, ora che The Guardian scrive la parola proibita – genocidio – all’improvviso il silenzio s’incrina. I comitati editoriali si svegliano. Le colonne si moltiplicano. Ma non è coscienza: è consenso. È il panico di perdere lettori, abbonamenti, credibilità. E allora via con gli editoriali contriti, con le fotografie che finalmente mostrano ciò che tutti sapevano da mesi. Ben venga. Ma nessuna indulgenza. Per diciannove mesi una parte della stampa ha depotenziato, censurato, giustificato. Ha fatto da schermo. Ora si scopre umanitaria solo perché l’opinione pubblica cambia vento. Perché le università occupate fanno rumore, perché i lettori si stancano delle veline, perché persino i cronisti embedded non riescono più a oscurare i corpi bruciati e i bambini amputati. Il merito non è dei giornali. È di chi ha tenuto la barra dritta quando non conveniva: reporter sul campo, ong, studiosi, attivisti, redazioni che hanno pagato in termini di isolamento, licenziamenti, intimidazioni. È questa la vera resistenza. Tutto il resto è rincorsa tardiva, goffamente rivendicata. Ora tocca alla stampa un compito più difficile: raddrizzare la politica. Perché la politica, anche quella italiana, continua a balbettare, a distinguere, a voltarsi altrove. Servono editoriali che non si limitino al lutto ma pretendano sanzioni, rotture diplomatiche, conseguenze. Chi ha sbagliato – con il silenzio o con la complicità – non può farla franca solo perché oggi cambia verbo. Il tempo delle omissioni è finito. Ora si risponde alla Storia. E la Storia ha buona memoria. #LaSveglia per La Notizia Diventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support .…
Quando Giovanni Giolitti definiva il fascismo "roba che deve sfogarsi", non stava solo sbagliando previsione. Stava costruendo un alibi. L’illusione di poter normalizzare l’eccezione, di usarla per i propri fini e poi ricondurla alla legalità, è stata la trappola dell’Italia liberale. Oggi quella stessa trappola si presenta in abiti nuovi, ma con la stessa logica: minimizzare, giustificare, normalizzare. Come allora, anche oggi c’è chi sminuisce le intimidazioni neofasciste, chi liquida le critiche sulla libertà di stampa come “strumentali”, chi derubrica l’erosione dei diritti a misura necessaria per la “sicurezza”. Il saluto romano diventa un “gesto funebre”, l’antifascismo è ridotto a una questione di retorica, i decreti sicurezza si presentano come strumenti di ordine pubblico e non come dispositivi punitivi. C’è una continuità nel linguaggio e nella strategia: il ricorso all’“emergenza”, l’uso della legge per legittimare l’arbitrio, la delegittimazione dei critici. Allora come oggi, la stampa che denuncia viene attaccata. I giornalisti sono "portatori di interesse", i dissidenti sono "faziosi", le ONG sono "politicizzate". La storia non si ripete mai uguale, ma si lascia scivolare nei dettagli: nel calcolo di chi tace, nell’ambiguità di chi strizza l’occhio, nella disattenzione di chi liquida tutto come nostalgia. I liberali degli anni ’20 si convinsero che il fascismo fosse un male passeggero. Anche oggi, chi minimizza crede di poter controllare ciò che non è mai stato addomesticabile: il potere che si nutre del disprezzo per la libertà. La democrazia non si difende da sola. Sta a chi la vive riconoscere i segnali che la storia ci ha lasciato. #LaSveglia per La Notizia Diventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support .…
La guerra non si combatte solo con le bombe. Si prepara con le parole. “Spopolamento”, “kill zone”, “Nakba 2023”, “fame”, “migrazione volontaria”, “Amaleciti”. È il lessico con cui, secondo il libro Lessico della brutalità di Adam Raz e Assaf Bondy, Israele racconta la distruzione di Gaza. Il vocabolario militare non descrive: legittima. Svuota di umanità. Così il massacro diventa strategia. La fame, una leva. I morti civili, “nessuno è innocente”. Le parole preparano il crimine, lo giustificano, lo ripetono. E cancellano la storia. Le espressioni usate da ministri, analisti e generali raccontano una brutalità che non ha più bisogno di travestimenti. Il ministro dell’Agricoltura Avi Dichter ha dichiarato in tv: “È la Nakba di Gaza”. Il ministro delle Finanze e leader del Partito Sionista Religioso, Bezalel Smotrich, parla apertamente di “spopolamento” come obiettivo bellico. Benjamin Netanyahu definisce l’offensiva “la seconda guerra di indipendenza”. E poi c’è la parola più agghiacciante: “Amaleciti”. Nella Bibbia ebraica, gli Amalek erano un popolo nemico d’Israele che Dio ordinò di sterminare completamente, uomini, donne, bambini e animali compresi. Usarla oggi per indicare i palestinesi significa sacralizzare il genocidio. Raz e Bondy non si limitano a denunciare. Decostruiscono. Perché ogni parola è una prova. Ogni formula ripetuta nei documenti ufficiali è un passo verso l’abisso. L’orrore è iniziato prima delle bombe. È cominciato quando un popolo intero è stato riscritto come bersaglio. Quando i confini morali sono crollati, e il linguaggio ha smesso di nascondere l’orrore e ha cominciato a compiacerlo. #LaSveglia per La Notizia Diventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support .…
C’è una parola che descrive esattamente questo scempio: morofilia. È l’attrazione morbosa per la morte e la sofferenza altrui. Non è una categoria psicologica, è una pulsione sociale, è uno dei molti mostri che la guerra a Gaza ha risvegliato. Il “tour del 7 ottobre” documentato da Pablo Trincia promette ai visitatori un’escursione nei luoghi dell’attacco di Hamas, con una comoda sosta su una collina da cui “ammirare” i bombardamenti israeliani sulla Striscia. È tutto vero: 162,87 euro a persona, caffè, pasticcini, aria condizionata, acqua in bottiglia e magari qualche piantina da un vivaio “vicino a Gaza”, per sentirsi anche buoni. Tutto prenotabile su TripAdvisor. Le recensioni sono entusiaste, il tono è da agenzia turistica, ma il contesto è quello di un genocidio in corso. Non una parola sulle migliaia di civili palestinesi uccisi, sulle famiglie cancellate dalle mappe, sulle case rase al suolo, sugli ospedali assediati. Tutto si riduce a un'esperienza immersiva da raccontare agli amici, tra selfie e souvenir. La morofilia non nasce nei campi di battaglia, ma negli occhi di chi guarda. E oggi trova forma nei pacchetti turistici confezionati come un safari etico, condita da un folklore militare che trasforma l’orrore in una narrazione di eroismo. È il trionfo della disumanizzazione: la guerra vista come spettacolo, le vittime ridotte a sfondo. Si può davvero assistere a tutto questo sorseggiando caffè? Evidentemente sì. Si può sorseggiare un caffè guardando un bambino morire sotto le macerie, se è incluso nel prezzo. Il genocidio, dopotutto, è più digeribile con un pasticcino. #LaSveglia per La Notizia Diventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support .…
Si può invitare all’astensione senza violare la legge. Ma è un’altra storia se a farlo è chi siede al governo. Quando il vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani consiglia di disertare i referendum su cittadinanza e lavoro dell’8 e 9 giugno, non infrange il codice penale. Lo spiega bene Vitalba Azzollini su Pagella Politica. Il diritto di parola tutela anche chi promuove il “non-voto”. Purché non usi il proprio potere per forzare o manipolare. Il punto, però, è un altro. È politico, non penale. Quando i ministri usano la loro voce per depotenziare il referendum – l’unico strumento di democrazia diretta riconosciuto dalla Costituzione – stanno ammettendo che la partecipazione popolare è un inciampo. Non abusano delle loro attribuzioni, ma se ne servono per svuotare un diritto. Perché un referendum che fallisce per astensione non è una decisione collettiva: è un’occasione abortita. La Costituzione considera il voto un dovere civico. Se oggi non è più un obbligo, non è perché abbia perso valore, ma perché si presume che una Repubblica sana sappia stimolare il consenso, non sopirlo. Ogni appello istituzionale all’astensione è un invito alla resa. È la maggioranza che, temendo il giudizio popolare, preferisce l’afonia alla parola. Come ricordava vent’anni fa il costituzionalista Gaetano Silvestri, «l’appello all’indifferenza è una contraddizione in termini». Anche quando è lecito, resta una scorrettezza. Perché la democrazia funziona solo se qualcuno si prende la responsabilità di farla funzionare. La legge consente di non votare, ma il potere dovrebbe incentivare il confronto, non spegnerlo. In democrazia, il silenzio non è mai neutro. #LaSveglia per La Notizia Diventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support .…
A Montecchio Precalcino, provincia di Vicenza, un diciannovenne si fa chiamare “Zeus”. Ha tatuaggi, profili social e una lista. Una lista “come quella di Turetta”: forbici, sacchi dell’immondizia, scotch, contanti. In calce, la dedica: «Turetta esempio modello». Lo scrive online pochi giorni prima di attirare la sua ex con una scusa: «sono scappato di casa per vederti». Lei ha diciannove anni, si era rifugiata da una parente a Mirano per non essere trovata. Ma lui la trova. La colpisce, la minaccia con un paio di forbici, le prende il telefono e la costringe a cancellare i contatti maschili. Poi scompare. Poi riappare. Minaccia anche la madre di lei: «Zeus viene ad ammazzarvi». Si filma sotto casa della ragazza. Viene arrestato. Dopo una notte in cella è già fuori. Obbligo di firma quattro volte a settimana. Per lui. Per lei: vigilanza attiva. Non può bastare per il divieto di avvicinamento. Serve un secondo episodio. È scritto così. Ci si chiede a cosa servano le lacrime, i fiori, i proclami se il codice rosso funziona solo a sangue versato. Se un ragazzo che pubblica un’imitazione puntuale di un femminicidio può ancora essere considerato solo un “ragazzino disturbato”. Se le parole sono sempre “scherzi”, le botte “una scivolata”, le forbici “un oggetto potenzialmente pericoloso”. Ma il punto è che non è pazzo, non è solo. È il risultato di una cultura che ha già archiviato Giulia, che usa Turetta come un meme, che allena ragazzi a considerare la violenza una prova d’amore. Un gioco da uomini. E finché il primo episodio sarà solo un preallarme, ci sarà sempre qualcuno pronto a testare il secondo. #LaSveglia per La Notizia Diventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support .…

1 Let it be a tale: Israele distrugge, Abu Toha ricostruisce parola per parola 1:57
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Mosab Abu Toha ha vinto il Pulitzer mentre in troppi ancora si chiedono se le parole possano qualcosa contro la guerra. I suoi saggi pubblicati sul New Yorker non sono solo resistenza culturale: sono cronaca incisa nella carne, sono memoria che non chiede il permesso di esistere. Abu Toha scrive da poeta e sopravvissuto. Scrive per chi non può più parlare. Scrive con l'urgenza di chi ha perso tutto tranne la voce. “La Gaza che ci lasciamo alle spalle” è un titolo che sembra una resa, ma contiene invece un intero atlante di ciò che si vuole far sparire: un forno d’argilla, il costume di Spider-Man del figlio, le partite di calcio tra amici, le melanzane coltivate ai bordi dei campi. È la geografia sentimentale della distruzione. Perché ogni casa bombardata, racconta, è “una sorta di album, pieno non di foto ma di persone reali, i morti pressati tra le sue pagine”. Ha rischiato la deportazione dagli Stati Uniti, dove vive in esilio con la sua famiglia. Ha cancellato incontri pubblici per paura. Ha detto che è devastante essere al sicuro nel Paese che finanzia il genocidio della sua gente. Eppure continua a scrivere. Continua a raccontare la fatica di coltivare verdure in mezzo ai droni, la vergogna di chiedere a un fratello affamato di cercare un album fotografico sotto le macerie. La speranza che un aquilone visto da un bambino non sia solo un aquilone. Abu Toha ha raccolto l’eredità di Refaat Alareer, ucciso da un raid nel dicembre 2023. A lui risponde con la stessa formula: “Let it bring hope. Let it be a tale”. Perché se devono morire, allora qualcuno deve raccontare. È questo, oggi, il compito del giornalismo. Il resto è contabilità del silenzio. #LaSveglia per La Notizia Diventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support .…

1 Olimpiadi da incubo: per il tubo di Zaia si affittano anche le promesse 1:45
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Per salvarsi dal rosso della pista da bob, il Comune di Cortina farà da B&B. È scritto nero su bianco nel piano economico redatto da KPMG e citato da Il Fatto Quotidiano il 4 maggio: 638mila euro di perdite ogni anno, 12,7 milioni in vent’anni. L’impianto “iconico” voluto da Zaia sarà pronto dopo l’inizio dei Giochi e resterà sulle spalle dei cittadini molto più a lungo. Per coprire il disastro, il Comune pensa di affittare appartamenti pubblici ai turisti: fino a 400 euro a notte. Gli stessi alloggi che da anni si promettono ai residenti. Si chiama valorizzazione immobiliare. Ma è una svendita. Nel 2023 la società Simico parlava di pareggio al quinto anno. Oggi la parola più usata è “deficit”. La voce principale? L’energia: 455mila euro solo per mantenere il ghiaccio. Più del doppio di quanto si incassa da tutte le attività agonistiche e turistiche messe insieme. La pista si userà per due mesi l’anno, se va bene. Il resto del tempo resterà lì, ferma, come una ferita aperta. Uno di quei monumenti all’insipienza che in Italia si costruiscono per sentirsi grandi. Salvo poi trovarsi piccoli davanti al conto. Il sindaco aveva detto di non dormire per l’ansia dei debiti. Ora sappiamo perché. Ma non sarà solo lui a pagare. A pagare saranno i cortinesi, con il patrimonio pubblico trasformato in rendita privata. Saranno le famiglie a cui si era promessa una casa. Saranno i contribuenti che finanziano un tubo inutile. Loro negheranno, negheranno ancora, negheranno come hanno fatto fin qui. Per salvarsi dal rosso della pista da bob, il Comune di Cortina farà da B&B. È scritto nero su bianco nel piano economico redatto da KPMG e citato da Il Fatto Quotidiano il 4 maggio: 638mila euro di perdite ogni anno, 12,7 milioni in vent’anni. L’impianto “iconico” voluto da Zaia sarà pronto dopo l’inizio dei Giochi e resterà sulle spalle dei cittadini molto più a lungo. Per coprire il disastro, il Comune pensa di affittare appartamenti pubblici ai turisti: fino a 400 euro a notte. Gli stessi alloggi che da anni si promettono ai residenti. Si chiama valorizzazione immobiliare. Ma è una svendita. Nel 2023 la società Simico parlava di pareggio al quinto anno. Oggi la parola più usata è “deficit”. La voce principale? L’energia: 455mila euro solo per mantenere il ghiaccio. Più del doppio di quanto si incassa da tutte le attività agonistiche e turistiche messe insieme. La pista si userà per due mesi l’anno, se va bene. Il resto del tempo resterà lì, ferma, come una ferita aperta. Uno di quei monumenti all’insipienza che in Italia si costruiscono per sentirsi grandi. Salvo poi trovarsi piccoli davanti al conto. Il sindaco aveva detto di non dormire per l’ansia dei debiti. Ora sappiamo perché. Ma non sarà solo lui a pagare. A pagare saranno i cortinesi, con il patrimonio pubblico trasformato in rendita privata. Saranno le famiglie a cui si era promessa una casa. Saranno i contribuenti che finanziano un tubo inutile. Loro negheranno, negheranno ancora, negheranno come hanno fatto fin qui. #LaSveglia per La Notizia Diventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support .…
Mentre Israele approva l’occupazione totale della Striscia di Gaza, il governo Netanyahu discute se far entrare o meno i camion con farina e medicine. Il gabinetto di sicurezza ha dato l’ok all’unanimità per una nuova fase della guerra: “conquista e mantenimento del territorio”. Un eufemismo per chiamare con freddezza militare ciò che è già una tragedia: due milioni di persone ridotte a combattere contro la fame, la sete e il silenzio. Nel frattempo, il ministro Ben Gvir chiede di bombardare le scorte alimentari di Hamas e afferma che “Gaza ha aiuti a sufficienza”. Nessuna ironia, solo l’indifferenza che diventa dottrina. Il capo di Stato Maggiore ricorda il diritto internazionale, ma viene zittito. Gli aiuti arriveranno solo dopo la visita di Donald Trump, come se un popolo potesse essere tenuto in ostaggio del calendario diplomatico. A Gaza, racconta la giornalista Rita Baroud, i bambini bevono acqua torbida e mangiano foglie d’uva crude. Le panetterie sono chiuse, le fattorie bombardate, i pozzi contaminati. Il pane è un ricordo, la carne un miraggio, l’acqua un lusso negoziato col potere. La fame non è una conseguenza della guerra. È una scelta deliberata, una strategia. La fame come arma, la sete come deterrente. Israele dice di voler evitare che Hamas si appropri degli aiuti, ma intanto la carestia avanza, i morti superano i 52.000 e le tende profughi si riempiono di corpi vivi che svaniscono. In Occidente, la parola “cessate il fuoco” si consuma sulle labbra, senza trovare mai le condizioni “adeguate”. Non è una difesa, è un piano di sterminio. Per avere successo ha solo bisogno di un esercito di vigliacchi fiancheggiatori. #LaSveglia per La Notizia Diventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support .…
Il 18 marzo è una data che resterà impressa nella coscienza di chi ha ancora il coraggio di guardare. Più di 400 persone palestinesi uccise in poche ore, molte delle quali erano bambini, in uno degli attacchi più feroci dell’ultima offensiva israeliana su Gaza. Una madre, Nesreen Abdu, e i suoi figli e nipoti, carbonizzati. È successo. Di nuovo. E succede ancora. Daniel Blatman, tra i massimi studiosi della Shoah, ha scritto su Haaretz parole che dovrebbero pesare come una sentenza: “Non avrei mai immaginato di leggere testimonianze su massacri compiuti dallo Stato ebraico che ricordano quelle raccolte al Memoriale dell’olocausto”. Blatman non è un attivista. È un archivista della memoria. E proprio per questo, la sua denuncia è più potente di qualsiasi slogan. “I miei peggiori incubi non avevano previsto tutto questo”, scrive. E poi osserva come i veri eroi di oggi siano i familiari delle persone liberate da Hamas che, nonostante il dolore, si aggrappano ancora all’umanità. Un’umanità che molti, in alto, hanno perduto. L’articolo ricorda Marek Edelman, comandante del ghetto di Varsavia, che disse: “Essere ebrei significa stare sempre dalla parte degli oppressi, mai degli oppressori.” Se chi ha conosciuto il genocidio diventa carnefice, la memoria si trasforma in propaganda. E allora quel “Mai più”, svuotato e tradito, diventa solo una scusa per altri massacri. Nel mondo che guarda in silenzio e nelle cancellerie che misurano i morti con la bilancia della convenienza, restano solo i fatti: bambini affamati, tende sventrate, cimiteri improvvisati. E la vergogna di chi conosce la storia, ma ha scelto di dimenticarne il senso. #LaSveglia per La Notizia Diventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support .…
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